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Jean Vicari

 

Jean Vicari

Jean Vicari, viaggiatore

Mi chiamo Vicari Jean e sono nato il 2 marzo 1958 a Moutier, nel cantone di Berna, da padre e madre italiani, emigrati in Svizzera molti anni fa. La nostra famiglia era composta da quattro persone: i miei genitori, mia sorella, più grande di me di cinque anni ed il sottoscritto.

Subito dopo la mia nascita, alcuni affari familiari andati male ci costrinsero a rientrare in Italia, dove rimasi con mia madre e mia nonna. Difatti mio padre per un po’ di tempo fu obbligato per motivi di lavoro a stare lontano da noi. Il nostro ritorno in Svizzera avvenne nel febbraio 1960, a Bévillard, sempre nel cantone di Berna, e poi a Mallerey (Berna) nel 1963.
Durante questo periodo i miei genitori furono impiegati in diverse ditte: mio padre nel settore meccanico, mia madre nell’orologeria.

Vivevamo nelle aziende agricole del villaggio, dove la vita scorreva lenta e tranquilla:  la mattina ci si svegliava al canto del gallo, poi si cominciava la giornata di lavoro.
I miei genitori andavano a lavorare e, lungo il tragitto, mia madre ci lasciava da una balia, con la quale trascorrevamo l’intera giornata. Era una donna molto brava, sposata con un capitano della Legione Straniera Francese in pensione. Il capitano era un uomo particolare, ma lo trovavo molto simpatico: mi raccontava storie dei suoi viaggi a Diên Biên Phû, a Tonkin e in tanti altri posti, e così passava il tempo giorno dopo giorno.

Della mia infanzia ricordo ancora i lunghi percorsi in bicicletta d’estate, i fiocchi di  neve d’inverno che cadevano lungo i campi ed il vento, che a volte ti sferzava il volto  come una lama. Durante la bella stagione la vita di campagna era molto più gradevole: gli uccelli cantavano, i colori attorno erano del tutto diversi con il sole che, a volte, sembrava mischiarsi con la natura, componendo una delle più belle pitture che sia dato ammirare.
I miei genitori, dopo il lavoro o durante le vacanze, andavano a dare una mano nei campi: a volte per il raccolto, altre solo per garantire il buon mantenimento della fattoria. Io li accompagnavo, naturalmente, seduto fra due cavalli, stupendi e neri come il carbone lustrato, che mi affidava il contadino, visto che non ero abbastanza  grande per fare lavori più duri. I due cavalli, di razza “Percherons” ed immensi in confronto alla mia statura, erano furbi come nessun altro, non aspettavano che il momento in cui facevo uscire di tasca la mela per abbassare la testa. Era il solo momento concessomi per accarezzarli a lungo e, come avrete naturalmente  capito, mi costava  la merenda, ma era una cosa che concedevo volentieri.

Questo periodo fu bello e piacevole, a parte le difficoltà quotidiane che tutti noi avevamo, e la vita di famiglia tranquilla. Passavo il tempo sia con mia sorella, sia da solo a casa a guardare le mucche e gli altri animali che stavano nel campo: a volte immaginavo storie nella mente cercando di diminuire la distanza che mi separava da loro o cercavo con lo sguardo una possibilità di dialogo, per scoprire se con il tempo avrebbero mai imparato a capirmi, quando parlavo.

I boschi vicini e il fiume erano un altro momento di divertimento: lì, per ore, costruivo capanne di legno e di rami, immaginandomi di essere su una nave che veleggiava per mondi misteriosi, altre volte fantasticavo di vivere in una giungla selvatica…

Con la famiglia certe volte si andava a passeggiare per i campi, a fare dei pranzi, a pesca per ore ed ore, tornando a casa, naturalmente, con delle trote per pranzo. Poi altre volte qualche amico passava per farci visita e andavamo insieme in un bar dove mio padre giocava occasionalmente a carte. La domenica a casa ascoltavamo uno dei primi transistor, comprato a prezzo d’oro, che mandava in onda le partite italiane di calcio, minuto per minuto. Questa era una cosa veramente seria, ricordo ancora che sentivo a volte le mosche volare talmente si stava concentrati, in ascolto della  Juve, dell’Inter,del Milan… mamma mia, che emozioni !

L’inserimento a scuola fu difficile, perché io e mia sorella eravamo gli unici italiani in classe e i problemi d’integrazione erano molti all’epoca.

Abbiamo dovuto farci forza a vicenda. Nonostante fossi mancino, m’imposero di scrivere con la mano destra; fu qualcosa di difficilissimo e creò molti conflitti con i maestri, a volte finiti molto male. Alla fine, però, riuscii a superare questa difficoltà.
Non fu così semplice invece con la classe di occupazione attiva, in cui si doveva imparare a cucire !Rendetevi conto, per un maschietto di sette anni, questa faccenda del cucito quanto potesse essere penosa: fu il mio primo atto di alta resistenza attiva e militante! 
Difatti, dopo interminabili discussioni fra i maestri, i miei genitori e la direzione di scuola, fui dispensato definitivamente da questo ridicolo compito. Non perché considerassi la cosa degradante, ma sentivo che passare ogni mercoledì  in un’occupazione manuale ripetitiva non era concepibile.

Nel 1966 traslocammo nel cantone di Neuchâtel, sopratutto per motivi di lavoro, a  Chaux-de-Fonds, la “città che ha deciso di vivere in campagna”.

Il trasferimento in questa bella città mi premise di sviluppare un altro punto di vista sulle cose che mi stavano attorno: scoprii la bellezza della vita cittadina, in confronto a quello di campagna.

A Chaux-de-Fonds esistevano diverse imprese, sia edili che d’orologeria, e alcune note personalità vi si trasferirono a vivere per brevi periodi: Benito Mussolini visse in una pensione a rue de l’Industrie dal 1913 al 1914, quando era ancora membro del partito socialista;, Lenin, Jean Cocteau, Albert Camus, Jean Paul Sartre e molti altri  lasciarono un impronta indelebile nella mente collettiva nonostante furono solo di passaggio. La città, sotto molti punti di vista, era molto accogliente: sapeva coniugare il sapere artigianale alla moderna industria e si stava sviluppando velocemente anche in altri settori.

Qui cominciai a intravedere la vita in modo più serio;mi resi conto della diversità tra il paesino d’origine e la città moderna, ero impressionato dalla quantità di gente che vi abitava e la loro distanza nei rapporti umani.
La comunità italiana locale era, però, molto presente e ben salda: ciò mi permise di conoscere altri emigrati come me, scoprendo nuovi punti di vista.

In quel momento il lavoro era il perno della vita per molti emigrati: dopo la grande crisi agli inizi degli anni ’70, ci fu un calo delle vendite - e di conseguenza della produzione- degli orologi meccanici. C’era meno interesse ad assumere, in quanto la gente chiedeva e sognava modelli elettronici moderni: era il boom delle novità tecnologiche e fu terribile per noi !

Molta gente se ne andò altrove, a causa della chiusura delle fabbriche, e la popolazione diminuì drasticamente.
Non un solo settore dell’industria si salvò dalla crisi. Ricordo ancora le strade colme di utensili e di macchine, destinate ad essere distrutte per riciclarne il metallo.

Una calamità imprevista che si pensava potesse durare a lungo; se solo avessimo saputo all’epoca che la crisi si sarebbe risolta e a distanza di dieci anni tutti  avrebbero voluto nuovamente orologi fatti a mano.
Ma gli attrezzi e le macchine per fabbricare non c’erano più e si era persa  la sapienza artigianale degli anziani, oramai quasi tutti pensionati:nessun giovane aveva o avrebbe imparato i segreti dell’antica orologeria.

Vidi, con miei occhi, in un ospizio per anziani dove lavoravo occasionalmente, costruttori disperati e direttori di produzione interrogare gli anziani per tentare di capire se avrebbero ricordato le funzioni di macchine e attrezzi artigianali allo scopo di poterle ricostruire nuovamente.
Troppe cose si persero in quel periodo e mai furono ripristinate: il sapere degli anziani bisogna assolutamente conservarlo, è una memoria preziosa della quale nessun giovane può fare a meno.
L’eredità di chi segue dipende spesso da chi l’ha preceduto.

Per il resto, vivere a Chaux-de-Fonds era molto piacevole: era una zona molto soleggiata, essendo una delle città più alte d’Europa, con un clima caldissimo d’estate ed un inverno talmente secco e glaciale, da spronare a camminare a passo svelto anche i più pigri.
Passarono così gli anni della gioventù, tra vita scolastica, nuove amicizie e scoperte quotidiane. A quel tempo avevo parecchie occupazioni: una di queste era aiutare un mio amico che lavorava in un vivario.
L’ambiente era stato ricostruito  in maniera talmente accurata che, una volta entrativi, si proiettava davanti agli occhi un mondo completamente diverso da quello urbano:  immaginatevi passaggi oscuri, piante esotiche, pappagalli, serpenti ed suoni della giungla su nastri registrati in sottofondo. Per ore e ore stavo lì, interessandomi a tutto ciò che riguardava questo mondo estraneo, che una volta mi riservò una tremenda sorpresa!

Ricordo che, mentre cercavo il mio amico attraverso i numerosi corridoi del vivario, entrai in un’area deserta dove d’improvviso si aprì una trappola; mi  ritrovai chiuso in gabbia e, quasi subito,sentii una presenza dietro di me e girandomi capii cos’era: sdraiato sopra una panchina c’era un puma enorme che mi fissava con i suoi due occhi verdi immensi. Ricordai che durante la mattinata erano state fatte le visite veterinarie, molti animali erano stati spostati e qualcuno si era dimenticato di mettere il panello col divieto d’accesso.
Provai un sentimento di vuoto; in quella confusione immensa cercai di capire chi guardava chi.
Fu un momento terribile: ero cosciente del fatto che in un balzo l’animale mi avrebbe mandato nel mondo di quelli che furono…
A volte capita, però, che la fortuna ci assista: riuscii ad uscire dalla gabbia, sostenendo lo sguardo del potente bestione con tranquillità, con l’aiuto del mio amico, il quale, accortosi della tragica situazione, era impallidito.

La quotidianità trascorreva tra attività extra-scolastiche, come passeggiate nella foresta e attività sportive, sia d’estate che d’inverno e momenti passati in famiglia.
Rientravamo regolarmente in Italia per le ferie, da trascorrere al mare, o far semplicemente visita ai parenti. Ah, il mare! Mi vengono in mente ancora tutti i preparativi della partenza, il controllo dei bagagli due o tre volte di seguito ed il viaggio verso il Bel Paese: era una meraviglia, si potevano apprezzare i paesaggi, la natura e finalmente il mare, che mi infondeva un  profondo senso di coraggio nella sua illimitatezza.
Ripensando al passato, direi che la gioia che mi pervadeva non veniva soltanto dal  rapporto semplice che avevamo in famiglia con le cose; in quanto emigrati bisognava affrontare momenti  duri, ma sempre con la  speranza di un domani meno difficile. Con il tempo, infatti, era aumentato l’ottimismo ed è ciò che rese possibile il superare parecchi ostacoli in modo sereno; non sarebbe lo stesso se i pensieri negativi si fossero imposti sulla realtà del momento. 

Finito il periodo scolastico, arrivò il momento di entrare nel mondo del lavoro ed iniziare a volare con le proprie ali.

Fu un momento di dubbi e di ricerca: non era del tutto facile scegliere un’occupazione sapendo di voler viaggiare e girare il mondo, per scoprire altri paesi e conoscere nuova gente. Poco a poco facendo diversi lavori e cercando qua e là, fu verso una scelta imprevista che il mio destino mi portò.

Partii un 24 dicembre con un amico, in direzione della Francia, per raggiungere il Marocco, con pochi soldi  e due biciclette che avevamo comprate d’occasione.

Ricordo ancora le sagome dei turisti giapponesi al colle della “Vue des Alpes”,sotto la neve che cadeva ininterrottamente, scesi dal pullman per fotografare noi due in bici, durante il viaggio di chilometri e chilometri. A quel tempo ci spostavamo con il fuoco sotto i piedi, facendo giorno dopo giorno parecchia strada e attraversando la Francia con facilità, visto che in quella stagione i villaggi dove ci fermavamo erano quasi deserti.
Qualche giorno di lavoro a destra e sinistra,e due o tre soldi in tasca per proseguire. Ho un buon ricordo di quel periodo: del tempo passato in diversi porti (come Sète), dove eravamo ingaggiati alla settimana per pescare o, qualche volta, per dare una mano nella vendita. Avemmo anche l’occasione di lavorare nei campi e tagliare la legna nel bosco, insomma tutto andava per il verso giusto. Dopo tre mesi arrivammo finalmente all’estremo sud della Spagna, pronti  a raggiungere il Marocco.

Fu per me una rivelazione scoprire una vita diversa di quella che conoscevo: ciò suscitò in me sentimenti di meraviglia e stupore mai provati prima. Dopo due mesi di viaggi magnifici ritornai a casa, viaggiando sia in treno, sia in camion, visto che le nostre biciclette, testimoni di quest’avventura, avevano naturalmente reso l’anima.

Di ritorno in Svizzera ci furono sia momenti di gioia, sia di sofferenza: dopo avere visto tutte quelle cose nuove e aver sognato una vita differente, ritrovarmi di nuovo immerso nel quotidiano era una prova durissima.

Di qui la necessità di tornare in Italia, stavolta per il servizio di leva.Mi ritrovai a Pisa, inserito nel reparto della “ Folgore”, 7° battaglione dei Paracadutisti, dove passai il tempo impegnato nelle diverse attività dell’addestramento, fino al mio ritorno in Svizzera.

Poco tempo dopo si presentò l’opportunità di lavorare in Inghilterra, dov’era risiedeva un mio amico. All’inizio fui impiegato come docker, impegnato nello scarico delle merci, come portiere in un club notturno e altre diverse occupazioni nel settore dei trasporti.
Fu al mio ritorno che mi fermai a Ginevra per incontrare un altro mio amico, appena sposatosi. Rimasi per un po’ tempo, trovando la città molto gradevole, e decisi poi di rimanervi. Fu l’inizio di un lungo periodo diviso fra molte attività, che mi portarono, col tempo, a viaggiare in altri paesi.

In seguito ad un incontro con una persona addetta al settore umanitario, andai per la prima volta a Bombay, in India, per portare centinaia di medicinali diversi destinati ad un campo di rifugiati di Tibetani a Mainpath, nello stato del Chhattisgarh.  Era il secondo campo fondato dal governo in esilio, nel 1963, e cosa assai strana, fu il posto dove vennero ricostruite alcune prigioni dello stato indiano, oramai abbandonate.

Di ritorno dall’India, continuai ad interessarmi al settore umanitario e tutto quello che gravitava attorno ad esso.

Incontrai gente che lavorava per un’associazione in aiuto allo sviluppo umanitario e che collaborava con la Confederazione Svizzera.
Fui inviato frequentemente in diversi posti del Mondo, dove c’era un notevole bisogno d’assistenza: andai nel Sikkim, a Rumtek, in India, su richiesta delle autorità locali che volevano modernizzare un campo medico, che serviva da ospedale e da centro di consultazione.
Nelle zone dell’Himalaya, a circa 1800 metri d’altitudine, le condizioni di vita erano piuttosto difficili, in particolare per le donne, sposate giovanissime e costrette a lavorare in condizioni precarie. L’impatto di tali condizioni di vita sulla salute erano preoccupanti e spesso i mezzi per far fronte alle malattie erano inesistenti.

Sul posto, presi contatto con tutti quelli che erano interessati, rendendomi conto che  l’ostacolo principale era sempre lo stesso: mancavano i mezzi per migliorare le condizioni di vita e lavoro. Mi trovavo in una posizione molto scomoda,non perché non avevo risolto il problema, ma per essermi reso conto che molti dei tentativi precedenti al mio arrivo non si erano mai realizzati.

In questi posti spesso conta molto la fortuna: a volte tutto diventa costoso e complicato in quanto le merci, sovente, rimangono bloccate lungo la via perché il trasporto si fa ancora a spalla o a dorso d’animale. Altre volte tutto dipende dalle condizioni atmosferiche stagionali: i temporali o i monsoni, gli inverni rigidi bloccano e ritardano considerevolmente qualunque attività.

Ci fu un’importante opera di coordinazione fra tutti noi presenti che portò a buoni risultati: allargammo l’area del campo medico, in particolare il deposito contente le medicine per il reparto maternità, per il pronto soccorso e la piccola chirurgia.
Per anni questa fu la mia vita, divisa fra voli frequenti e i soggiorni in giro per il mondo: andai in Tailandia, in India, in Nepal, in Africa, e tanti altri paesi.
Per qualche tempo rimasi a “riposo” a Ginevra, prima di partire nuovamente alla volta della Cina e del Tibet.

Furono momenti bellissimi l’arrivo a Hong–Kong e l’attraversamento del mare per raggiungere Canton.La prima cosa che vidi fu una piazza con un mercato fuori dal tempo: cesti di bambù, pentoloni che cuocevano centinaia di ravioli al vapore e tante altri alimenti a me sconosciuti.
Visitai molte città, come Liuzu e Guiyang, attraversai il Yang-Tse-Kiang, salendo su  Chonging , Neijang  ed altri posti e villaggi fino a raggiungere Chengdu.
Era inverno e fui obbligato a prendere l’aereo per Lhasa. Una volta arrivato, scoprii una città irreale, sospesa nell’eternità, a 3600 metri d’altezza; dappertutto colori magnifici davano al paesaggio un’aria da cartolina postale.
Sono rimasto per fare il giro dei templi buddisti: il Potala, il Norbulinka, il Jokhang, il Drepung, dove approfittavo per portare i saluti e i messaggi degli allievi europei ai vecchi maestri e professori rimasti sul posto.
Le vedute sulle valli erano strabilianti, come visioni d’immensità e poi la gente…  incredibile quanto fosse simpatica: ogni giorno non incontravo altro che sorrisi. Alcune volte incrociavo delle carovane che si spostavano per la vendita del bestiame o per comprare merci da riportare nelle valli isolate:mi meravigliavo del coraggio di questa gente, che affrontava la vita come due o tre secoli fa, sospesa ad un filo.

I Tibetani, nel pragmatismo dell’esistenza quotidiana, sono molto solidali tra loro, per far fronte alle stagioni e al clima durissimo e cercare così di ricavare il massimo possibile dai raccolti anche in situazioni disagiate come le loro.
Questo popolo non può permettersi di perdere tempo, deve agire al momento giusto e passare all’azione senza incertezze.

A volte lungo il cammino potevo toccare le nuvole con la mano e di notte ammiravo le stelle grosse come palloni da calcio: non a caso quel luogo si chiama “il tetto del mondo”.

In questi paesi, uno realizza la consapevolezza di essere “unico” nell’esistenza. Ripresi poi il mio cammino, da Lhasa à Gyantsé, poi verso Shiigatzé, passando colli altissimi, posti a 5200 metri, fino a raggiungere Xegar, Rongbuk, Nyalam, ecc…, fermandomi solo dove c’era possibilità di rimanere; sovente viaggiavo  a piedi, altre volte su qualche camion di passaggio, altre su uno yak fino ad arrivare a Kodari, la frontiera nepalese .

Una volta ancora fui obbligato a tornare; prima di raggiungere l’Europa mi fermai in India: per qualche mese stessi a Calcutta, poi a Benares ed infine a Pondichery, un’antica colonia Francese, nel sud del Paese.
Oggi risiedo stabilmente a Ginevra,continuando però a viaggiare quando se ne presenta l’occasione: ultimamente sono stato in Namibia, in Zambia, in Botswana e in tanti altri posti.

Eccovi il racconto sintetico della mia esistenza, che vorrei concludere con un mio pensiero: la vita non è altro che un movimento vertiginoso in spirale del quale, a parere mio, vale assolutamente la pena esserne partecipi. Quando parlo di movimento, non intendo solo lo spostarsi altrove, (anche se è quello che io ho vissuto in tanti anni), ma  un sentimento profondo, uno stato d’animo presente in ogni cosa, aperto a tutti quelli che vogliono condividere con sincerità e consapevolezza.



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